Loyalty program in Italia e nel mondo? Ieri erano visti come un’ulteriore occasione di vendita. Oggi sono diventati uno strumento di retention sempre più strategico nel rafforzare la fiducia in un brand. Il che significa ragionare oltre la mera convenienza per costruire loyalty program più personali, emozionali e valoriali. Solo così è possibile incrementare la capacità di una marca di rimanere connessa ai propri clienti, facendo la differenza nel tempo.

Loyalty program come strumento bivalente. Fino a ieri, per i clienti il valore di un programma fedeltà è sempre stato un percorso associato a meccanismi di ricompensa (premi, sconti, privilegi o altri incentivi speciali) offerti a seguito di una serie di acquisti ripetuti in un certo delta temporale. Oggi più che mai, per le aziende il valore di un loyalty program offre nuove opportunità di ingaggio e di fidelizzazione che vanno ben oltre l’incremento del volume delle transazioni. Grazie all’innovazione omnicanale e a un uso sempre più pervasivo e intelligente dei dati, un programma fedeltà permette ai brand di ottenere informazioni cruciali su come i clienti spendono e a quali prodotti o tipologie di offerte sono più interessati. Questo consente di cogliere in tempo reale i cambiamenti in atto rispetto a preferenze, aspettative e valori dei consumatori per sviluppare percorsi di personalizzazione sempre più allineati al loro mindset. In che modo? Progettando nuove dinamiche di relazione, di comunicazione e di azione attrattivi, coinvolgenti e memorabili al punto da diventare irrinunciabili. Ma i problemi nel farlo nel modo migliore sono diversi.

I dati ci insegnano una storia che parla fondamentalmente di una dicotomia – ha spiegato Luca Lanza, Strategic Design Director di Kettydo+, in occasione dell’evento di presentazione del XXII Convegno Annuale “La loyalty ha nuovi confini” dell’Osservatorio Fedeltà Università di Parma -. Se da un lato vediamo che nei primi due anni di pandemia c’è stato un fortissimo impulso acceleratore, unico nel suo genere, in cui gli utenti sono diventati più digitali e l’omnicanalità è diventata un fenomeno pervasivo di fatto, dall’altro lato possiamo dire che probabilmente nella loyalty, e nelle strategie di ingaggio in generale, i brand non hanno ancora compiuto lo stesso passo in avanti. Le loro strategie non sono riuscite ad adattarsi altrettanto velocemente all’evoluzione dei consumatori e delle loro aspettative. Questo sicuramente ha avuto un impatto: si è creato un gap, confermato dalle analisi rilevate. Allo stato attuale ci troviamo di fronte a un nuovo consumatore che si trova in un punto avanzato mentre le strategie di loyalty e di engagement a quel punto ci devono ancora arrivare, soprattutto i livelli di loyalty più maturi, che esistono da tempo”.

Loyalty program: uno, nessuno, centomila

Secondo la ricerca sui consumatori italiani dell’Osservatorio Fedeltà UniPR, solo considerando le insegne per la spesa alimentare sono ben 20 MLN le famiglie iscritte ad almeno un programma fedeltà. Più nel dettaglio:

Le cattive notizie che arrivano dagli analisti sono due:

  1. Solo il 16% dei consumatori italiani ritiene piacevole e utile la capacità di personalizzazione di un brand (all’estero è il 37%)
  2. Quasi la metà degli italiani (44%) ritiene il grado di personalizzazione delle recommendations poco o per nulla affini ai propri desiderata (all’estero è il 10%)

Oggi il focus della loyalty per i brand è ancora la transazione

Pur essendo consapevoli del cambiamento dei consumatori e delle loro aspettative, le aziende continuano a impostare i programmi fedeltà sulla convenienza, più ancora che sul loro senso di appartenenza e di affinità al brand. I clienti che si trovano all’interno di un programma fedeltà, infatti, non solo sono quelli più allineati ai valori dell’azienda ma sono anche quelli che sono più propensi ad ascoltare e seguire il brand. Eppure, guardando ai vantaggi offerti dai loyalty program, fa molto riflettere come praticamente 8 iniziative su 10 si focalizzino in modo preponderante su sconti ed offerte.

I programmi di fidelizzazione nel percepito del CdA

Per quanto i programmi fedeltà costituiscano un elemento cardine della customer experience in termini di soddisfazione e retention, in Italia il 38% dei vertici aziendali italiani ancora tende a vedere i programmi fedeltà come un centro di costo e non un centro di profitto (Fonte: Ricerca Aziende Osservatorio Fedeltà UniPR, ottobre 2022). Questa visione frena un’evoluzione più strategica dei loyalty program, allineata all’evoluzione dei consumatori sempre più attenti non solo alle iniziative ma anche ai valori che orientano l’essere e il fare dei brand.

Riuscire a trasformare la loyalty in un centro di guadagno – ha proseguito Lanza – significa riuscire a essere esattamente nel punto dove si trovano oggi i consumatori, avendo la capacità di dare loro quello che si aspettano e di essere quello che loro si aspettano. Da questo punto di vista si apre una grandissima opportunità: riuscire a riportare una dimensione di business a pari con il nostro consumatore. Il che significa riuscire a creare quel legame fondamentale che oggi i nostri utenti cercano. E qui non parliamo più nemmeno di consumatori o di utenti ma di persone. Le domande fondamentali sono due. Dove sono oggi le persone? Che cosa cercano nel brand? Bene: qui c’è una bellissima notizia, che non viene dal marketing o da una loyalty strategy bensì dall’antropologia e dallo studio dei valori primari e secondari dell’uomo. Noi facciamo business con le persone che, contrariamente a quello che siamo portati a pensare, non passano la loro vita facendo atti d’acquisto: passano la loro vita vivendo emozioni, paure e tanti altri momenti emotivi di diverso tipo. Ed è proprio quando un brand riesce ad avvicinarsi a questi momenti che riesce a entrare in contatto con le persone per iniziare con loro una relazione”.

Non a caso le aziende stanno incrementando i loro sforzi nel capire come orientare le proprie iniziative di engagement. A questo proposito, l’Osservatorio Fedeltà dell’Università di Parma ha posto una domanda interessante ai brand: se potesse ripartire da zero, creerebbe il programma fedeltà della sua azienda così come è oggi? Per oltre 6 aziende su 10 (65%) la risposta è stata No, lo farei:

In generale, la tendenza è ancora quella di procedere in modo sperimentale, diversificando le iniziative per testare i risultati in corso d’opera.

La fedeltà deve essere indipendente dalla transazione

Certo è che entrare in contatto con la dimensione quotidiana di un cliente richiede modalità diverse a seconda dei brand e dei settori di riferimento. Ad esempio, nel caso di prodotti che hanno degli intervalli di vendita molto ampi (ovvero non quotidiani), cosa accade nel momento in cui i programmi di loyalty sono ancora basati sulla convenienza e quindi su una loyalty transazionale che, per quanto elemento importantissimo, rimane l’unico riferimento? Quello che succede è che il brand si allontana progressivamente dalle sue persone, senza riuscire a creare quella connessione quotidiana che le persone si aspettano di avere. Soprattutto in un momento complesso come quello attuale, la non vicinanza è un elemento critico. Da questo punto di vista, riuscire ad avvicinarsi sempre di più al consumatore e tornare alla radice della marca, ovvero capendo perché il brand esiste e quali sono quei valori basali che possono creare una connessione a prescindere dal gesto di acquisto, significa riuscire a creare quel legame emozionale che diventa il collegamento con le persone nella loro dimensione umana e quotidiana.

È al di là di questo punto che è possibile ricombinare il must have – ha ribadito Lanza -, vale a dire una loyalty transazionale (basata sulla convenienza di un modello spendo e guadagno punti come una forma di gratificazione), andando a colpire il mondo della relazione, portando in campo quella cosiddetta loyalty comportamentale. In che modo? Creando un’abitudine di relazione tra il marchio e la persona, andando a muoverci su nuovi valori come, ad esempio, la sostenibilità, che si conferma essere qualcosa di importante e rilevante per tutte le persone. L’esperienza della pandemia ci ha portato a scoprire e capire l’importanza di nuovi valori che non sono solo il carbon footprint. Ricordiamo che nell’Agenda 2030 sono 17 gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile che sono il cardine della sostenibilità e mirano ad affrontare un’ampia gamma di questioni relative allo sviluppo economico e sociale. Lavorare su questi aspetti significa imparare a progettare una composizione di tre tipi di loyalty: una loyalty transazionale, una loyalty comportamentale e una loyalty emozionale/valoriale che ci portano alla radice del rapporto”.

L’importanza di creare loyalty program emozionali

Solo così è possibile creare veramente quel legame forte in cui è possibile progettare la loyalty a partire dal cosiddetto Design Human Centered, ovvero una progettazione che si focalizza su una o più tipologie di persone, individuate come fruitrici principali di un prodotto così come di un programma di fidelizzazione. Grazie a questo approccio, il brand riesce a portarsi dentro alla dimensione di tutte quelle persona che oggi sono molto più avanti delle strategie attuate dai brand in termini percettivi e valoriali. Nel momento in cui un’azienda riesce a lavorare con le sue buyer persona di riferimento arriva finalmente a capire che cosa loro veramente si aspettano, azionando anche un altro tipo di design: il design dei valori.

Non dobbiamo mettere valore semplicemente perché è necessario, appiccicandolo per emulare un greenwashing o un valuewashing, che è ancora peggio – ha sottolineato Lanza -. Dobbiamo creare un rapporto interessante e concatenato con il nostro utente in cui si sovverte il tradizionale rapporto in cui il brand racconta i suoi valori (storytelling di marca) in uno storymaking collettivo che significa facciamo qualcosa insieme, tutti quanti. E così che portiamo le nostre persone all’interno della progettazione di nuovi modelli di loyalty per ritornare nel mondo transazionale che, in questo modo, avrà delle nuove ragioni d’essere e nuova linfa per trovare nuove motivazioni a riversarsi sull’atto d’acquisto. In questa nuova dimensione dell’azione i KPIs (retention, scontrino medio, frequenza d’acquisto e quant’altro) vengono alimentati da un motore diverso che è un motore veramente della relazione e della vicinanza ed è intrinseco a una strategia più evoluta, significativa, personalizzata e autentica. La domanda che i brand devono porsi è: riusciamo a costruire un rapporto fiduciario con i nostri clienti? Tra i dati condivisi dall’Osservatorio Fedeltà relativamente alla ricerca sui consumatori italiani a me fa pensare molto come oltre la metà delle persone (54%) in Italia quando valuta la personalizzazione risponde dipende dal brand che me la propone mentre poco più di una persona su 10 (16%) risponde che l’apprezza e gli è utile”.

La personalizzazione è dinamica e data driven

A ostacolare la capacità di personalizzazione dei brand non sono solo la qualità dei dati, tool non adeguati, le piattaforme che non si parlano. Il grosso problema è la mancanza di fiducia in una cultura aziendale data driven e customer centrica. I brand per personalizzare devono imparare a fare le domande giuste alle persone che vogliono ingaggiare e fidelizzare. Perché un’attività di personalizzazione funzioni è necessario sapere cosa vogliono e che cosa si aspettano le persone. Quando pensiamo alle ricompense, ad esempio, è fondamentale verificare che i premi proposti corrispondano non solo ai desiderata dei consumatori ma anche ai loro valori in termini di sostenibilità, salute, benessere e via dicendo.

In Kettydo+ siamo convinti che la personalizzazione sia la chiave fondamentale della loyalty in quanto rappresenta il vero vettore del business – ha concluso Lanza -. Ma la personalizzazione non è qualcosa che tu accendi e poi si autoalimenta. È un continuous improvement: è qualcosa che devi mettere in moto e rimettere in moto in ogni momento per andare a rigenerare valore e a restituire valore. Solo così l’esperienza si alimenta e si trasforma in fidelizzazione. La fedeltà, infatti, altri non è che una risposta a una serie di iniziative del brand che dice al consumatore: ci sono delle cose che ho capito da te e che te le traduco in azioni, più o meno immediate. E come per tutte le dinamiche di domanda/risposta: se faccio la domanda sbagliata non solo avrò la risposta completamente sbagliata ma formulerò l’azione sbagliata. Qual è il punto? Parliamo da tempo della fine dei cookies vissuta dal marketing come un’apocalisse. Il fatto è che ogni brand deve imparare comunque a ragionare in maniera diversa, cavalcando la leva dei cosiddetti zero-party data, ovvero i dati che l’utente realmente e volontariamente condivide con il brand. Questo ci porta alla chiave di quello che è la premessa di una buona personalizzazione, ovvero alla fiducia che deriva da una qualità e da un’autenticità della relazione costruita su una reale capacità di comprensione. Se riusciamo a ripartire dalla fiducia, che deve stare alla base della piramide del business, c’è committment. Le persone si impegnano a darci qualche cosa, il che significa che sono con noi, ovvero all’interno del brand, e questo progressivamente genera risultati. E, proprio dalla fiducia, riusciamo a dare il punto chiave in cui possiamo personalizzare il tutto. Il resto è tecnologia abilitante, è strategia, è tattica, è engagement”.

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